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La politica dei sogni

di Francesco Comina


Per te, caro don Tonino, la politica si misura unicamente sui sogni. 
E sulla loro capacità di andar lontano. Di essere arditi e impossibili. 
Noi, invece, restiamo irretiti nel pessimismo.

Scusami, don Tonino, se cedo con troppa insistenza al pessimismo e ti offro uno sguardo cupo della situazione nel nostro tempo. Ti vedo un poco risentito perché non sono ancora riuscito a dire qualcosa di buono. Tu sei lì, appoggiato allo scoglio col taccuino in mano in cerca di una ispirazione poetica, pronto a carpire i segni della speranza, e io ti getto addosso tutto lo sconforto del mondo. Lo sai benissimo che stiamo vivendo il tempo della deriva politica, dell’appiattimento culturale, della frammentazione sociale. Su molte questioni hai avuto modo di intervenire e di farti sentire. Essere nel mondo – ci hai insegnato – significa guardare con gli occhi irretorti quello che accade intorno a noi, anche nella penombra, significa scendere in piazza per difendere i diritti dei più deboli, dei migranti, dei prigionieri, vuol dire denunciare le storture senza mai abbandonare i telescopi della speranza anche quando sembra che tutto sia perduto per sempre. Ricordi la lezione di padre Balducci? Ogni volta che l’umanità si è trovata di fronte al pericolo dell’annientamento – ricordava sulla scorta dei grandi antropologi – è emersa una risposta creativa che ha riaperto processi del tutto innovativi. E, citando Ernst Bloch, annotava: “Che sui passaggi intermedi della sua nascita ci sia buio non fa meraviglia. Sappiamo per esperienza che ai piedi del faro non c’è luce”.
Per te la politica si misura unicamente sui sogni. Quanto più aridi di sogni diventano i parlamenti tanto più cupa si fa la crisi e, al contrario, tanto più compatto è il numero dei parlamentari che sognano, tanto più solida si fa la speranza. Converrai con me che in Italia oggi lo sguardo onirico si è rattrappito al punto che vien voglia di guardare indietro, di richiamare alla memoria uomini della prima Repubblica come il sindaco “santo” di Firenze Giorgio La Pira o Giuseppe Dossetti, uomini come Moro, De Gasperi, Lazzatti, donne che hanno vissuto pienamente l’idea politica come Teresa Mattei o Tina Anselmi. La politica, negli anni del dopoguerra, aveva una dimensione alta. La città stava sul monte – per dirla con La Pira – era la comunità che sperimentava l’azione per il bene comune. C’era, insomma, nella visione di questa politica, un’idea di amore per il prossimo, dato di volta in volta, con il suo volto. E qui si aprirebbe un discorso lungo e meraviglioso. Sono volti da scoprire, da amare, da accarezzare, ci diceva don Italo Mancini. Tu te ne intendi di volti. Ne hai accolti tanti, ne hai disegnati a migliaia con l’immaginazione della scrittura e della poesia. Hai associato i volti con i nomi, hai coniugato vite e virtù, problemi e soluzioni. Li chiamavi per nome i poveri che bussavano alla tua porta. Il filosofo lituano Emmanuel Lévinas ha usato espressioni forti per elaborare la sua etica del volto. “Il volto ingabbia”, diceva, “ti rende ostaggio”, “visita e converte alla nonviolenza”. Come si può uccidere un volto guardandolo negli occhi?
Perché, caro don Tonino, abbiamo abbandonato anche questo percorso culturale e politico? Perché questi centri di alterità, che sono i volti, scompaiono in mezzo al caos della crisi economica e finanziaria, perché allo spirito di solidarietà si interpone, subito, il sentimento del rancore generalizzato, d’invidia, di rabbia, di urla, di rifiuto dell’altro, peggio ancora se diverso? Volti rimossi perché la roba (i soldi) è diventata oramai l’unico metro su cui si misura la politica e il suo contrario, ossia quel movimento di anti politica che vorrebbe gettare tutto a mare: “È la roba che ci divide” ci ricorda Giovanni Verga.



Francesco Comina
(Fonte: Mosaico di Pace - Giugno 2014)




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